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La storia

di Marco Olivieri



Episodio 1 - La Città del Rock

Il taxi svoltò con una sterzata vigorosa su Main-Street senza curarsi affatto del minivan che gli passò a pochi centimetri di distanza.
All'interno dell'abitacolo, la musica travolgente di "Take a Look Around" rimbombava con una tale violenza da far sembrare che i "Limp Bizkit" fossero lì dentro e la stessero suonando con delle raffiche di mitra.

Seduto sul sedile posteriore, Timmy si aggrappò vigorosamente al manico alto della portiera, pregando ad occhi chiusi che quel viaggio assurdo non finisse con il suo corpo martoriato che veniva estratto dalle lamiere accartocciate del taxi.
L'uomo alla guida arrestò improvvisamente il veicolo facendo stridere le gomme sull'asfalto poi inveì con una sequela indicibile di insulti in direzione di un'incauta vecchietta che aveva avuto l'ardire di attraversare la strada davanti a lui. Da come trascinava lentamente il proprio carrello, quella povera signora di almeno ottant'anni sembrava essere completamente ignara sia del pericolo a cui era appena scampata, sia delle tonanti imprecazioni del tassista.
Non appena si creò lo spazio per passare, la vettura lasciò un paio di metri di pneumatici sull'asfalto e saettò ad un palmo dal sedere dell'anziana. Dopo qualche centinaio di metri ed una serie indecifrabile di semafori bruciati, il taxi accostò bruscamente sul lato destro della corsia. Poi l'uomo alla guida abbassò il volume dello stereo e si voltò di scattò, mostrando un rugginoso sorriso sdentato al suo passeggero ancora tremante.

«Sono quindici e sessanta», disse mentre controllava con un dito che il suo occhio di vetro fosse al suo posto. «Più quella bella mancia che mi aveva promesso, signore»
La parola "signore" stonò nelle orecchie di Timmy come lo "STONK" di una corda di chitarra che si spezza durante un assolo.
Aveva appena compiuto sedici anni. La sua testa era intasata da una matassa incomprensibile di riccioli biondi. Il suo abbigliamento si riduceva ad una T-Shirt scura dei Sex Pistols, un paio di jeans accorciati fin sotto al ginocchio e delle Converse talmente usurate da aver fatto dimenticare ormai da tempo quel candido bianco della punta gommata.

No, Timmy non aveva né l'aspetto né lo stile di un "signore". Ma la cosa che più di ogni altra lo stava sconcertando era il rischio che aveva corso solo per essersi azzardato a dire ad un tassista di SilverTown se per caso "poteva andare in fretta". Un errore che non avrebbe mai più ripetuto, considerando anche il costo extra che tutto questo trambusto aveva richiesto.
«Questi sono venti», rispose Timmy cercando di afferrare con le dita ancora tremolanti l'ultima banconota che aveva nel portafoglio. «Tenga il resto», concluse a malincuore.
«Sì signore, grazie signore», disse il suo strambo autista con un'enfasi tale da inondare con una vaporosa alitata tutto il taxi di un forte odore di broccoli andati a male.
Timmy non disse nulla. Sorrise debolmente, poi cercò di uscire il più in fretta possibile da quella trappola infernale. Tra il viaggio vorticante e quel fetido odore, aveva lo stomaco talmente in subbuglio che sarebbe bastata anche solo una parola per rivedere la sua cena mal digerita sparsa all'interno dell'auto. Solo quando fu finalmente fuori dal taxi, il ragazzo emise un profondo respiro di sollievo.

Era partito all'alba dalla sua Tauria, una piccola cittadina di periferia del sud, e si era fatto più di trecento chilometri di viaggio in treno, notando dal finestrino come ogni città in cui aveva sostato fosse sempre più popolosa e con palazzi sempre più grandi. Ma ciò che gli rivelò il centro di SilverTown fu qualcosa di totalmente inaspettato e travolgente.
Nonostante fosse ormai notte inoltrata, i mille neon della città riuscivano ad illuminare ogni cosa come in pieno giorno. Un'infinità di grattacieli si ergevano simili a titaniche colonne specchiate, disturbate dal costante mormorio delle migliaia di persone che si accalcavano sui marciapiedi ai lati di una gigantesca strada ad otto corsie pervasa da un fiume impetuoso di auto strombazzanti.

Anche se visibilmente stordito da tutta quella bolgia di suoni e luci, Timmy non si fece intimorire. Era arrivato nella capitale con un obiettivo ben preciso e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farlo desistere. Guardò per un istante lungo la strada, cercando di capire se quel tassista lo avesse lasciato nel posto giusto, ma non vide nulla di ciò che si aspettava di vedere.
Gli aveva dato l'indirizzo del più importante locale di musica del paese, eppure di musica non se ne sentiva affatto se non per gli spot sparati dai mega videowall pubblicitari o per le suonerie troppo alte di qualche cellulare invadente. Qualcosa non quadrava.

Poi un pezzo di carta fluttuò a pochi passi da lui atterrandogli sui piedi. Timmy lo guardò meglio e vide una scritta gialla decisamente familiare. Improvvisamente si rese conto di molti altri volantini identici sparsi un po' ovunque e, d'un tratto, la sensazione di uno strano richiamo silenzioso alle sue spalle sembrò invitarlo a voltarsi.
Eretta venti metri al di sopra di un ingresso a quattro ante, un'enorme insegna spiccava su tutte le altre luci come una luna piena risplende in un cielo stellato. Sbigottito ed estasiato, ma soprattutto sorpreso di non essersene accorto prima, Timmy rimase immobile e con la testa rivolta verso l'alto a fissare quei dieci caratteri che si illuminavano ad intermittenza. Quello era il luogo che aveva sognato per quasi tutta la sua giovane vita. Quello era l'ingresso della "Città del Rock". Quello era il "ROCKOPOLIS".

Ma l'idillio di quel momento non durò che pochi istanti.
«Ehi, guarda dove vai, moccioso!!», gli biascicò contro un tizio visibilmente alticcio e agghindato come un ridicolo Elvis obeso subito dopo averlo urtato con una chitarra acustica foderata di strass. Timmy seguì con sguardo incuriosito quel bizzarro individuo vestito da bianco cowboy mentre si allontanava barcollante, ma subito dopo averlo perso tra la folla, tornò al presente, pronto a fare ciò per cui era venuto.

L'entrata al Rockopolis si divideva in tre accessi. Quello centrale era costituito da un portone di vetro a doppia anta, completamente intasato da una coda infinita di persone che attendevano impazienti di poter entrare. A sorvegliare questo accesso c'erano quattro omaccioni in completo scuro e un mini-auricolare all'orecchio. Le due entrate laterali, invece, erano costituite da porte assai più piccole e praticamente sgombre, fatta eccezione per quegli energumeni che solo di rado si disturbavano a far passare qualche vecchio riccone, seguito dallo starnazzante blatericcio di sciacquette in minigonna e tacchi a spillo.
Per un istante, Timmy fu terrorizzato dall'idea che il locale simbolo del Rock si fosse improvvisamente tramutato in uno squallido night-club, ma fortunatamente, i due mastodontici manifesti affissi ai lati del grande ingresso fugarono ogni suo dubbio. Infatti, da quanto riportato sulle locandine, ad esibirsi quella sera c'erano i “Banditos”, un gruppo emergente di cui Timmy ricordava di aver visto un paio di esibizioni su YouTube. Dei veri musicisti dal talento innegabile, con un stile eccentrico ed efficace.

Ma la scritta che più di tutte rapì i suoi occhi, fu quella data messa in grande evidenza: Martedì 4 Aprile. E ciò stava ad indicare che alla trentesima edizione del più importante evento "live" del mondo mancavano solo quattro settimane. Un evento in cui si sarebbero esibite le più promettenti band di tutto il paese. Un evento imperdibile.
Un evento che Timmy non si sarebbe limitato a vedere come al solito dal televisore di casa sua o su qualche sfocato filmato postato in rete. No, lui quell'anno avrebbe vissuto il Rockopolis da vero protagonista... o quasi.

Già perché, anche se la natura gli aveva dato una voce armoniosa quanto quella di una cornacchia in calore e la coordinazione motoria di un elefante zoppo, Timmy amava la musica rock più di qualsiasi altra cosa. Non ricordava bene quando fosse iniziata questa passione, né da chi l'avesse ereditata, ma mentre i suoi coetanei ascoltavano Lady Gaga o Justin Bieber, lui si sparava in cuffia il ritmo turbinante dei Clash o la penetrante energia dei Dream Theater. Qualunque fosse il genere, dal punk al metal, dall'hardcore allo ska, dal blues al funky, lui era un vero esperto. Di certo nel suo futuro non ci sarebbero mai state folle urlanti in attesa di una sua canzone, né tantomeno frotte di femmine pronte a strapparsi la biancheria intima mentre si destreggiava in un assolo con la chitarra. Ma nonostante questo, Timmy si era dato da fare per mettere insieme una punk-band che fosse all'altezza del Rockopolis... o almeno, così sperava.

Con l'aiuto del suo folle amico Jim, nonché leader e voce della band, aveva raccattato i primi tre compagni di scuola che sembravano avere un minimo senso del ritmo e li aveva immersi nel mondo del punk a suon di Rancid, Ramones, Damned e molti... molti altri ancora.
Poi finalmente, dopo due anni trascorsi a provare in una lurida catapecchia, decine di concerti gratis per registrare un video-demo decente, una quantità innumerevole di lavoretti con cui racimolare la somma sufficiente all'iscrizione, c'era riuscito: Timmy aveva tutto l'occorrente per fare il suo ingresso nel mondo del Rock. Peccato che fosse arrivato con un giorno di ritardo dalla chiusura delle selezioni. Ma questo era un problema che avrebbe risolto una volta incontrato il Direttore del Rockopolis, conosciuto anche come il sindaco della "Città del Rock". Per ora doveva solo capire da che parte entrare.

Accodarsi alla fila che aspettava davanti all'ingresso centrale, gli avrebbe portato via un sacco di tempo e non poteva rischiare di passare ore ed ore in attesa per poi vedersi le porte chiuse in faccia. Quindi optò per uno dei due accessi laterali, ma appena arrivato, trovò subito un brutto ostacolo.

«Fermo ragazzino!», gli intimò uno dei buttafuori dall'alto dei suoi due metri d'altezza. «Ce l'hai il pass?»

«Ehm... No, ma veramente io...», provò a rispondere Timmy vagamente imbarazzato.
«Allora la fila per entrare è quella», lo interruppe l'altro indicandogli il portone centrale.
«No vede, io non sono uno spettatore, io devo...»
«Senti ragazzino...», intervenne ancora l'uomo con fare sempre più spazientito, «non farmi perdere tempo. Se vuoi entrare, mettiti in fila come tutti gli altri. Non te lo ripeterò ancora», concluse stizzito, facendosi subito dopo da parte per far passare l'ennesimo vecchiaccio facoltoso in vesti sgargianti che se ne andava in giro con la mano destra incollata alla chiappa di una ragazza con la metà dei suoi anni. Per un istante, Timmy ebbe l'impulso di demordere poi il ricordo delle fatiche che aveva dovuto sopportare per arrivare fin lì prese il sopravvento.
«Mi ascolti...», disse buttando fuori tutta la determinazione che aveva in corpo, «io non sono qui per divertirmi, ma per iscrivere la mia band al concorso, e pretendo di parlare con il Direttore. Sappia che non ho nessuna intenzione di passare tutta la notte ad aspettare di poter entrare!»
L'uomo davanti a lui si irrigidì d'improvviso, poi fece qualche minaccioso passo in avanti. Al pensiero di aver scatenato quella massa di muscoli, il cuore di Timmy smise di battere ed un mattone di nervosismo gli si incastrò in gola.
«Ehi, Mike! Come andiamo?».

Guidata dalla divina provvidenza, una voce rauca stranamente familiare alle spalle del ragazzo sembrò riuscire a distrarre per un istante la furia del buttafuori. Subito dopo, un uomo dai lunghi capelli scuri striati di ciocche bionde, e vestito con una giacca di pelle con le maniche sfrangiate, si avvicinò all'ingresso del locale. «Sono già arrivati tutti?», chiese con fare disinvolto.
«Quasi tutti, signor Tyler», gli rispose il buttafuori tornando ad assumere una posa molto più formale. «Manca solo sua figlia Liv»
«La solita ritardataria», commentò l'altro scuotendo la testa.
Disturbato dalla costante presenza ingombrante dell'omaccione che aveva davanti, per Timmy fu impossibile riuscire a capire chi diamine fosse quel tizio dall'aspetto vagamente conosciuto che lo aveva tratto in salvo. Poi finalmente quell'uomo misterioso posò per un breve istante il suo sguardo su di lui e tutto fu più chiaro. «Un altro piantagrane?», chiese mostrando un ampio sorriso alla guardia.
«Tutto nella norma, signor Tyler», replicò il buttafuori con espressione imperturbabile.

Bastò quel breve attimo a Timmy per riconoscerlo... e per non credere ai propri occhi. Lo aveva visto centinaia di volte ma soltanto attraverso uno schermo. Ed ora, invece, era lì. Steven Tyler era a pochi passi da lui, in carne ed ossa. Il cantante degli Aerosmith stava parlando proprio di lui.
In quell'istante, nella testa del ragazzo balenò un improvvisa idea folle ma che, allo stato attuale delle cose, sembrava essere l'unica opportunità per evitare di tornare a casa a mani vuote. Quindi decise di rischiare.

«Non sono qui per imbucarmi!», proruppe Timmy sperando in un po' di fortuna. Il buttafuori si spazientì intimandogli con un gesto del braccio di mantenere le dovute distanze.
«Bhé, a me non sembra affatto», sorrise Steven Tyler voltandosi poi dall'altra parte per accedere al locale.
«Sono qui per un'occasione!», urlò Timmy nel vano tentativo di divincolarsi dalla presa del buttafuori che ora si stava facendo sempre più inquieto. «E Rockopolis potrebbe essere la mia, come Liveland è stata la sua, signor Tyler!»

Il cantante degli Aerosmith si fermò, poi volse il capo di lato. «Pochissimi conoscono quella storia. Hai fegato, ragazzo, te lo concedo», disse mostrando il suo classico sorriso beffardo. «Ma il Rockopolis non è qualcosa da prendere alla leggera. Credi di essere pronto?»
«Non sarei qui, altrimenti», replicò Timmy madido di sudore.
Steven Tyler squadrò ancora per qualche istante il volto del ragazzino che aveva davanti e non riuscì a smettere di sorridere. «Bene, allora staremo a vedere cosa saprai fare», disse con tono provocatorio. «Ehi, Mike, fai un pass per la serata a questo impavido rocker e mettilo sul mio conto», poi senza aggiungere altro si voltò ed entrò nel locale.

Timmy non riusciva a credere a quel che era appena successo.
«Oh mio Dio, grazie, grazie mille signor Tyler...», gridò con un'esplosione di gioia avanzando verso il suo inaspettato benefattore. Avrebbe voluto abbracciarlo, baciarlo, strappargli anche qualche ciocca di capelli, ma qualcosa di molto ingombrante glielo impedì.
«Fermo, ragazzino!», intervenne il buttafuori bloccandolo con una mano grande quanto la sua stessa testa. «Non avere tanta fretta, dobbiamo prima registrarti»

Dopo aver placato l'animo di quel furetto indemoniato, l'uomo si sistemò il vestito, per poi tirare fuori dalla tasca interna della giacca un palmare e una piccola tessera plastificata con un QRCode stampato sopra.
La procedura di registrazione richiese un documento d'identità e qualche minuto per inserire tutti i dati anagrafici nell'archivio centralizzato del locale. Dopodiché, Timmy fu ufficialmente autorizzato ad accedere al settore vip del Rockopolis. Quando ottenne il badge, quel ragazzino dai capelli ricci e lo sguardo un po' stralunato non aveva idea di cosa lo stesse aspettando, ma gli bastò aprire la porta per capire di essere appena entrato in un nuovo mondo.

Sin dal primo momento in cui era sceso dal taxi, Timmy si era chiesto come fosse possibile che un locale immenso come il Rockopolis riuscisse a non assordare tutta la via su cui si affacciava. La risposta arrivò non appena fece il primo passo all'interno.
Si sarebbe aspettato di trovarsi faccia a faccia con la maestosità della famigerata "Arena", invece, davanti a lui c'era una discesa divisa in tre corsie che si avventurava verso il basso per una trentina di metri, intervallata da settori in piano per evitare l'effetto "strapiombo". Il passaggio centrale, quello più ampio, era separato dagli altri due laterali tramite una spessa lastra di vetro perfettamente lucidato. Anche se più stretti, questi due corridoi godevano del lento movimento di un tapirulan sotto ai piedi che ne facilitava la discesa. Ad intrattenere i passanti lungo tutta la discesa, c'erano decine di oggetti appesi sulle pareti esterne ed esposti come se fossero pregiati reperti musicali all'interno di un museo.
Attonito come un bambino davanti ad uno spettacolo di fuochi d'artificio, Timmy rimase completamente immobile, mentre il tappeto scorrevole lo conduceva in un viaggio incredibile nella storia della musica. C'era davvero di tutto: la Stratocaster bruciata da Jimi Hendrix a Woodstock, le bacchette smangiucchiate del batterista dei Clash, alcuni degli stravaganti costumi indossati dai Kiss, il basso foderato di adesivi di Flea dei Red Hot Chili Pepper... troppa roba per poterla elencare tutta e troppo poco tempo per poterla ammirare adeguatamente.
Mentre quegli emblemi che avevano scritto la storia del rock gli scorrevano lentamente davanti agli occhi, un suono sordo dapprima quasi impercettibile poi sempre più distinto, riuscì a destare Timmy dall'ipnosi in cui era caduto.

Ritmato, sincopato, poi accompagnato da una serie infinita di rullate alternate perfettamente col suono esplosivo di una selva di crash: quello era senza alcun dubbio un turbinante assolo di batteria eseguito senza la minima sbavatura.
Il suono divenne sempre più forte man mano che Timmy avanzava e, quando la passerella mobile terminò la sua corsa davanti ad una porta che un paio di buttafuori si offrirono prontamente di aprirgli, l'assolo era ormai giunto al termine. A quel punto, un boato immenso generato da migliaia di voci esultanti, lo investì come un'onda sonora. Timmy guardò per la prima volta dal vivo l'Arena del Rockopolis e lo fece da un'altezza di quasi quaranta metri. Ora era chiaro perché quel luogo vantava la nomea di "Città del Rock".
Tutta la struttura era sviluppata su tre livelli, come fosse un immenso stadio costruito nelle profondità della terra. Più in basso di tutti c'era un gigantesco palco circondato da una quantità indecifrabile di luci e dal centro partiva una lunga passerella che si conficcava come una lama bianca in una marea di spettatori urlanti. Quantificare il numero di persone che stava inneggiando il nome dei Banditos sarebbe stato praticamente impossibile. I livelli più alti, accessibili solo da coloro che erano entrati dagli ingressi privilegiati, apparivano come le lussuose tribune di uno stadio dalle quali si poteva assistere allo spettacolo sottostante in totale tranquillità.
Infine, sulla sommità della cupola spiccava una struttura cubica dalle pareti specchiate che sembrava guardare tutto il Rockopolis dall'alto, come un grande lucernario risplendente. Per poterla raggiungere, quattro ascensori dal terzo piano risalivano su dei binari che correvano lungo le pareti ricurve, come delle seggiovie molto elaborate, fermandosi infine sui quattro lati opposti di quel luogo apparentemente inaccessibile. A giudicare dagli energumeni ben vestiti che sorvegliavano l'ingresso degli ascensori, quello doveva essere l'ufficio del Direttore. Esattamente la persona a cui Timmy doveva presentare la sua iscrizione.

Nel frattempo, il batterista dei Banditos aveva ripreso a picchiare con un ritmo pulsante ed inconfondibile.
“TUM-TUM-PA... TUM-TUM-PA”
Un ritmo accompagnato dal battito delle mani di tutto il pubblico.
“TUM-TUM-PA... TUM-TUM-PA”
Un ritmo su cui la voce graffiante del cantante fece esplodere gli astanti con una scarica di adrenalina.
«Buddy you're a boy, make a big noise...»

"Ok, Timmy, stai tranquillo" si ripeté mentalmente il ragazzo cercando coraggio dal suono di quella canzone "pensa al modo in cui ti rassicurerebbero adesso i tuoi genitori".
«Basta perdere tempo con queste ridicole idiozie e mettiti a studiare!», gli rimbalzò nella mente la voce di suo padre.
«Abbassa il volume di quello stereo!!», seguì poi lo stridio nervoso delle grida di sua madre. Quante volte aveva sentito ripetere quelle frasi. No, affidarsi al parere dei suoi genitori non gli sarebbe stato di alcun aiuto. Doveva cavarsela da solo.
«We will, we will… rock you… rock you…», intonò il cantante dei Banditos sommerso da un coro oceanico di voci, proprio mentre Timmy era arrivato davanti all'ascensore.

«Desidera?», gli chiese con fare distaccato uno dei due uomini di guardia.
«Ehm, sì, dunque...», tentennò il ragazzo guardandosi attorno. «Devo vedere il Direttore per...», ma non gli venne in mente nulla di plausibile, «ehm... per...» poi la sua mano si mosse inconsciamente sul badge che portava in tasca, «...per conto di Steven Tyler», disse mostrando la scheda plastificata.
I due uomini si guardarono per un attimo sconcertati, poi uno di loro tirò fuori un palmare e lo passò sopra al QRCode della scheda, finché non si udì un breve "BIP". Questa volta, lo sguardo che si scambiarono i due energumeni fu di completo stupore.
«Certamente», si affrettò a rispondere la guardia col palmare in mano. Intanto, l'altro aveva già schiacciato un pulsante per richiamare l'ascensore, e poi bisbigliato qualcosa verso la manica della sua giacca. Quando le porte si aprirono, il tizio col palmare gli fece cenno di entrare.
«Il Direttore la sta aspettando», disse tenendo una mano sul proprio auricolare.

Forse aveva un po' esagerato col tirare in mezzo il cantante degli Aerosmith, ma era stato il suo istinto ad averlo guidato fin lì e, ora che anche le porte di quell'ascensore si erano aperte, non poteva permettersi esitazioni. Quindi cercò di mascherare il guazzabuglio di nervosismo che gli stava ribollendo nello stomaco, ringraziò con un cenno del capo i due omaccioni a cui aveva appena raccontato la più grossa balla mai detta prima ed entrò.
Il tempo che trascorse per arrivare sulla sommità del Rockopolis non durò che pochi istanti, eppure Timmy ebbe l'impressione di rivedere tutta la sua vita scorrergli davanti. Appena le porte dell'ascensore si riaprirono, le vetrate esterne mostrarono in basso la maestosità dell'Arena in tutto il suo splendore.

La sala in cui si ritrovò era ampia e molto spaziosa. All'interno c'era a malapena una decina di persone distribuite per una superficie di quasi duecento metri quadri. Erano tutti seduti a delle scrivanie, indossando cuffie e microfono, dannatamente impegnati a picchiettare sulle tastiere che avevano davanti e a fissare degli enormi monitor. Nessuno di loro sembrava dar peso allo spettacolo incredibile che avveniva oltre la vetrata, neanche il tizio magrolino di mezz'età dallo sguardo severo e la posa impeccabile che gli venne incontro.
«Benvenuto signor...», disse verificando il display del tablet che teneva su un braccio, «Wingam, se non erro».
«Sì, sono io», confermò Timmy vagamente imbarazzato. Odiava sentirsi chiamare per cognome, solo i suoi professori lo facevano e questo avveniva solo quando dovevano riprenderlo o chiamarlo per un'interrogazione. Ora però c'erano problemi più impellenti da risolvere e non doveva distrarsi come al suo solito. Era la prima volta che vedeva il volto del Direttore e mai se lo sarebbe aspettato così formale e disponibile, ma aveva comunque intenzione di spiattellargli tutto prima di complicare ulteriormente la sua situazione.

«Senta, signor Direttore, so bene di essere con un giorno di ritardo e di non aver rispettato la prassi, ma io devo assolutamente partecipare a questa edizione». Da una delle tasche laterali dei jeans tirò fuori la busta accartocciata in cui erano contenuti tutti i suoi risparmi, poi glieli consegnò. «Ecco vede, questa è la quota d'iscrizione, sono cinquemila. Li può contare se vuole e...»
«Se c'è una cosa che non tolleriamo qui al Rockopolis», si intromise d'improvviso una voce profonda alle sue spalle, «sono i furfanti e i bugiardi... e ho come l'impressione che tu sia entrambe le cose»
Gelato da quelle parole terribilmente veritiere, Timmy si voltò per vedere chi lo avesse interrotto e trovò l'immagine imperiosa di un uomo corpulento ma con l'abito più sgargiante che avesse mai visto. I capelli erano stati perfettamente ordinati da un lato con una buona dose di gel e brillantina. Una candida camicia bianca dal colletto prominente sembrava risplendere di luce propria grazie alla fila di bottoni diamantati che aveva sia sul davanti, sia sui polsini. Giacca e pantaloni scuri, invece, creavano un distacco cromatico evidente, seppur ben bilanciato da una serie di bianche righe verticali. A completare la figura di quell'individuo dal portamento vistosamente altezzoso, era il luccichio costante di un anello dorato al mignolo della mano sinistra.
L'uomo squadrò Timmy per alcuni istanti poi sfilò un lungo sigaro dalla tasca interna della sua giacca gessata, accendendolo con un fiammifero accuratamente riposto in una levigata scatola di legno. Bastarono solo un paio di aspirate per far sì che tutta la sala si riempisse dell'acre odore di tabacco. Ora non c'era alcun dubbio su chi fosse il Direttore del Rockopolis.

«Vedi, ragazzino...», proseguì l'uomo armato di sigaro con un tono terribilmente tranquillo, «nel mio lavoro bisogna imparare due cose: riconoscere una faccia se l'hai già vista e se quella stessa faccia ti sta mentendo». Timmy non riuscì a parlare, la sola presenza di quell'individuo gli aveva paralizzato i muscoli. «Ti ho concesso di salire nella mia Sala di Controllo solo per vedere il tuo volto e mi è bastato questo per capire che se anche il tuo badge ti collega a Steven Tyler, sappiamo entrambi che tu non hai nulla a che fare con lui». Lo sguardo dell'uomo si fece improvvisamente più acuto. «Quindi, ora che abbiamo capito tutti che sei un impostore, io ti consiglio di andartene con le tue gambe. A meno che tu non voglia che i miei uomini ti "accompagnino" fuori»
Una parte di Timmy sentì l'improvviso impulso di schiantarsi contro la vetrata, ma il terrore gli aveva paralizzato anche le gambe. Era finita così? Tutte le sue fatiche si riducevano ad un banale "arrivederci e grazie"? No, un'altra parte di Timmy trovò tutto questo decisamente inaccettabile. «Aspetti!», gridò d'istinto. «Lei non può farlo!»

«Non posso farlo?», domandò l'omone con espressione stupefatta, causando la paralisi immediata di ogni ticchettio sulle tastiere. Un gelo colmo di tensione sembrò avvolgere tutta la sala. «Io sono il Direttore del Rockopolis, posso fare qualsiasi cosa nel mio locale!!»
«No, un attimo, non volevo dire che non può farlo». La situazione stava andando sempre peggio. «E' ovvio che lei può farlo...» e non era proprio il momento di cincischiare. «Quello che volevo dire è che non dovrebbe, nel senso che perderebbe una grande occasione se non accettasse la mia band». Una vocina nella sua testa gli suggerì di starsene in silenzio. «Anche se in verità non è proprio la mia band», perché non stava affatto migliorando le cose, «sì, cioè, è la mia band, ma io non canto e non suono, sono solo il loro manager».
Fare un discorso peggiore sarebbe stato praticamente impossibile, e il volto inebetito dei due uomini che ora lo stavano fissando, ne era una chiara conferma. L'idea di un volo di trenta metri divenne un'opzione sempre più attuabile.
«Quindi, tu saresti il manager di una band?», chiese il Direttore con tono dubbioso.
«Sì, signore», rispose Timmy, vergognandosi del modo ridicolo in cui si era presentato.
«Di una rock band?», rimarcò ancora l'uomo, mal celando il proprio scherno.
«Sì, signore», la voce del ragazzo risuonò come il lamento di un animale ferito. Poi una risata improvvisa del Direttore riscosse tutti.
«Benissimo!», disse l’uomo battendo le mani con un colpo talmente potente da far trasalire ogni persona nella sala, «e hai con te una demo del tuo gruppo?»
«Co... Cosa?» La mente frastornata di Timmy impiegò qualche istante per elaborare quella richiesta. «Sì, cioè, volevo dire... Ma certo, eccolo qui, signore» e dopo aver rovistato frettolosamente in un'altra tasca dei suoi jeans, porse al Direttore una chiavetta USB.

Fu l'altro uomo a prendere il piccolo dispositivo e ad inserirlo in un PC. Cliccando poi un paio di pulsanti sulla tastiera, uno dei tanti monitor appesi alle pareti mostrò il video che Timmy aveva girato al “Punkrupt Fest”, dove il suo amico Jim con la testa ricoperta di spuntoni verdi, stava alzando il dito medio verso il pubblico, sgolandosi come un disperato durante il ritornello di "Smell Like Teen Spirit".

«Molto bene», disse compiaciuto il Direttore dopo una manciata di secondi. Poi tornò a guardare Timmy. «Allora ci rivedremo tra quattro settimane per la vostra prima esibizione al Rockopolis. George si preoccuperà di sistemare le scartoffie e spiegarti tutti i dettagli del torneo. Ora puoi andare».

L'espressione sul volto di Timmy rimase aggrovigliata tra una selva di perplessità. Era passato in pochi istanti dall'essere cacciato fuori a calci, al rappresentare una band nella più importante manifestazione musicale del mondo. Qualcosa non quadrava. Ma nella testa di quel povero ragazzo, lo spazio per fare domande era stato occupato da un marasma di emozioni contrastanti.
«Prego, da questa parte», lo invitò l'altro uomo con fare cordiale. «Grazie al badge che le è stato consegnato abbiamo già tutti i suoi dati anagrafici, ora dovrei solo sapere il nome della band per ufficializzare l'iscrizione», chiese infine mentre le porte automatiche dell'ascensore si aprirono davanti ai loro occhi.
«Cosa?», domandò il ragazzo visibilmente stordito.
«La band...», gli ripeté l'altro cercando di scandire meglio le parole. «Qual è il nome del vostro gruppo».

Improvvisamente, Timmy non riuscì più a ricordarlo. Lo avevano cambiato così tante volte che in quel momento di confusione totale non ricordava più quale fosse l'ultimo scelto. I Calamità, gli Annoiati , i Topi Grigi... No, tra i pochi nomi che riusciva a ricordare, nessuno sembrava adatto ad un evento come il Rockopolis. A quel punto non gli rimase che un'unica drastica soluzione: improvvisare.
Non aveva molto tempo per rispondere e non poteva certo dire "non lo so, mi ci faccia pensare". Quindi, Timmy si guardò rapidamente attorno cercando una qualsiasi cosa che potesse ispirarlo.
«Allora?», chiese nuovamente l'uomo, mostrando un evidente tono seccato.
«Sì, dunque...», aveva bisogno di un elemento che li rappresentasse in maniera diretta ma divertente. «Noi siamo...» ed infine lo trovò, anzi la trovò in un angolo. «Carta Straccia!»
«Come prego?», domandò perplesso l'uomo con il tablet in mano.
«Il nome della band». Ormai Timmy non poteva ritrattare. «E' "Carta Straccia"». L'altro annotò il nome digitando sul tablet con una certa titubanza, quindi tornò a rivolgersi al suo giovane neoiscritto.
«Conosce già lo svolgimento del torneo?»
Contrariamente alle domande dei suoi professori a scuola, qui le risposte le conosceva a menadito.
«Certo», disse Timmy senza esitazioni. «Dal 4 aprile, inizierà la Rocker Rumble: dodici giorni in cui più di cento gruppi si esibiranno sul palco del Rockopolis. Dopodiché, una giuria tecnica selezionerà le migliori quattro band che parteciperanno alla serata finale di metà Maggio» e a quella serata, Timmy avrebbe potuto esserci.
L'uomo che aveva davanti sorrise compiaciuto. «Molto bene, vedo che è molto preparato sul concorso, quindi non c'è altro di cui debba informarla. A presto signor Wingam» poi le porte dell'ascensore si chiusero riportando il ragazzo al terzo piano.


«Non crede di essere stato un po' troppo precipitoso, signore?», domandò George guardando dalla vetrata quel ragazzino uscire dall'ascensore al terzo livello. «Il cantante aveva un buon timbro, anche se mi è parso eccessivamente esagitato. Chitarrista e bassista, invece, erano troppo ingessati, mentre il batterista non andava neanche a tempo».
«Sono assolutamente d'accordo», gli rispose il suo superiore lasciandolo di stucco.
«Ma allora perché accettarli nel concorso?»
«Mio caro George, questa è una competizione di talenti assoluti. Il vincitore di ogni edizione del Rockopolis ha registrato un CD che è sempre stato quantomeno disco di platino. Quello di cui il pubblico ha bisogno però, è un termine di paragone, un livello zero da cui partire... o più semplicemente: carta straccia da poter gettare nel secchio». Il sorriso soddisfatto del Direttore fu offuscato da una nuvola di fumo del suo sigaro.
«Ma sono solo dei principianti», osservò George perplesso. «Verranno divorati dalla critica».
«Esattamente!» Dall'espressione goliardica dipinta sul volto del Direttore, sembrava proprio che non aspettasse altro. «Ormai lavori per me da più di quindici anni e dovresti sapere che nel mondo dello spettacolo non esiste nulla che faccia più scalpore di una clamorosa figura pietosa in un evento così rinomato». Poi l'uomo tornò a sedersi molto lentamente alla sua scrivania. «E lo scalpore, di qualunque genere esso sia, porta sempre audience... così come l'audience porta un mucchio di soldi».


Le porte dell'ascensore si riaprirono e Timmy si ritrovò al secondo piano del Rockopolis come se fosse sotto l'effetto di qualche allucinogeno.
Ogni suo passo verso l'uscita sembrava farlo fluttuare ad un palmo da terra, accompagnato da un assolo alla Brian May, che il chitarrista dei Banditos stava impreziosendo con variazioni sparate al fulmicotone. Stava sognando, o era tutto reale? Qualunque cosa fosse, era bellissimo.
Mentre si avviava con sguardo stralunato verso l'uscita, i ricordi di quella serata incredibile gli si accafollarono in testa come se fossero in una mischia furibonda, finché la dura realtà non si materializzò nella massiccia spalla di un individuo di oltre due metri. Non appena Timmy levò lo sguardo verso l'alto, due occhi cupi, seminascosti da una lunga capigliatura scura, lo stavano fissando ricolmi di un furore terrificante.
«Guarda dove vai, pidocchio!», disse una voce talmente gutturale che sembrava provenire dalle profondità stesse dell'inferno.

Davanti all'immagine di quel diavolo in giacca smanicata, con le braccia scolpite da muscoli tracotanti e marchiate da un'infinità di tatuaggi, Timmy non reagì, non parlò, non respirò neanche, non fece praticamente nulla... anche perché non c'era nulla che avrebbe potuto fare. A fiancheggiare l'energumeno che ora lo sormontava, c'era una bellissima ragazza completamente vestita di pelle, dagli evidenti lineamenti nordici, con capelli biondo platino raccolti in una tiratissima coda di cavallo e un'arrogante espressione disgustata dipinta sul volto.
Timmy conosceva quei due ma soprattutto, conosceva quella voce. Leader dei "Nove Inferi" e padrone indiscusso del mondo metal sui social, Hans Grummel, detto anche "Nosferatu", non aveva bisogno di presentazioni, così come Yana Lorgh, la bassista mozzafiato del suo gruppo. Indispettito e adirato, il tenebroso cantante passò oltre assieme alla sua compagna senza aggiungere altro, mentre il ragazzo ringraziò silenziosamente il cielo di essere ancora vivo per poter raccontare anche quell'incredibile incontro.


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